Il loro naufragio i nostri silenzi
La guerra agli scafisti non basta, dall’Europa soluzioni concrete
di Laura Boldrini*portavoce Unhcr
Le
morti in mare dei migranti sono una delle più gravi tragedie dei nostri
tempi. E meritano una risposta ampia e articolata che coinvolga tutta
l’Europa. Invece il dibattito politico su questi argomenti è sempre
stato miope e di corto respiro.
LE MORTI IN MARE DI INTERE
FAMIGLIE, DI GIOVANI E così come per chi vuole dare al proprio figlio un
futuro migliore è come morire due volte.
Questi lutti non sono una
questione di fatalità o un fatto ineluttabile. Si muore perché le
imbarcazioni sono fatiscenti, perché i soccorsi tardano oppure perché ci
sono persone che si girano dall’altra parte ignorando l’urlo di
disperazione. Certo, un maggior coordinamento tra chi opera in mare
servirebbe a ridurre i rischi. Ma, volendo allargare doverosamente la
lente, si muore anche perché non si cercano soluzioni concrete per
limitare il ripetersi di tali eventi. I governi non pongono questo tema
tra quelli prioritari e di conseguenza viene a mancare quell’impegno
necessario per mettere in campo misure alternative.
Il dibattito
pubblico su questo tema è stato spesso miope e di corto respiro. Anni fa
ci dissero che i respingimenti indiscriminati in alto mare messi in
atto dall’Italia salvavano vite umane, omettendo di aggiungere cosa
accadeva a quelle centinaia di persone riportate in Libia. Anche le
ricette che circolano oggi continuano a focalizzarsi sulle misure di
contrasto come unico antidoto ai naufragi, perdendo di vista il contesto
globale in cui le migrazioni si sviluppano e le cause che sono alla
base dello spostamento: guerre, violazioni dei diritti umani,
insicurezza, mancanza di sviluppo, povertà.
Basta arrestare le bande
criminali che organizzano il traffico dei migranti per evitare che
migliaia di persone finiscano negli abissi? La risposta purtroppo è no,
poiché non è questa la radice del problema. I trafficanti, che pure
hanno enormi responsabilità e vanno perseguiti, esistono perché c’è una
forte domanda di persone che spesso non hanno scelta. Se un migrante in
cerca di lavoro potesse fare domanda per accedere a quote messe a
disposizione dai vari paesi europei non giocherebbe alla roulette russa
nel Mediterraneo. Se un rifugiato eritreo o somalo che arriva in Libia
sapesse di poter essere trasferito in Italia, Francia o qualsiasi altro
paese sicuro attraverso vie legali non si affiderebbe ai trafficanti
indebitandosi e rischiando la vita. Aspetterebbe il suo turno.
E
invece nonostante le sollecitazioni dell’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati agli Stati membri dell’Unione europea, lo
scorso anno sono stati principalmente Stati Uniti, Canada e Australia a
dare la possibilità a 80mila rifugiati di essere trasferiti regolarmente
sui loro territori attraverso il programma specifico di reinsediamento.
E
non è vero che l’Europa è la destinazione ambita da tutti, come spesso
si sente dire da politici e giornalisti inclini alla suggestione
dell’invasione. Com’è noto molti migranti stanno lasciando il vecchio
continente verso i nuovi mercati dei Paesi emergenti. Allo stesso tempo,
per i rifugiati sono le cifre a parlare: oltre l’ottanta per cento di
loro si sposta nei paesi confinanti, nel sud del mondo. Nel solo campo
di Dadaab in Kenya vivono da oltre venti anni circa 500mila rifugiati
somali. Nei ventisette paesi dell’Unione Europea lo scorso anno hanno
fatto domanda d’asilo 277mila persone. E basta guardare a quanto sta
accadendo in Siria per avere l’ennesima conferma: oltre 250mila siriani
sono scappati in Turchia, Giordania, Libano e Iraq mentre nei primi sei
mesi del 2012 nei paesi dell’Unione Europea sono stati settemila i
siriani a inoltrare una domande d’asilo. Molti di loro avranno dovuto
rischiare la vita su una carretta del mare.
Limitare le morti nel
Mediterraneo dunque è una questione di ampia portata che merita una
risposta articolata che vada ben oltre l’arresto dei presunti scafisti e
i confini nazionali italiani. E che non può più attendere.
l'unità 12-9-2012
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