lunedì 3 settembre 2012

Venezia 69. “Mare chiuso” : l’onta italiana della non accoglienza - Taxi Drivers

Evento collaterale denso e importante, necessaria presenza nella veste di strumento di memoria che il cinema non può dimenticare di incarnare, specie in un momento storico come questo. Mare chiuso, delicato e toccante lavoro della coppia Andrea Segre/Stefano Liberti, ha aperto Vite perdute nel Mediterraneo, sognando la libertà, incontro promosso dal Consiglio D’Europa, dedicato al tema della politica dei respingimenti, che ha visto purtroppo come Stato protagonista l’Italia del 2009.

Nel documentario, continuum progettuale di un percorso che la coppia di coautori ha avviato ormai da 5 anni nel racconto e nello studio del fenomeno immigratorio, si ripercorre a ritroso, attraverso le parole, i volti, i corpi dei profughi africani rifugiati nel campo ONU al confine tra Libia e Tunisia dopo l’avvio della guerra in Libia, una pagina nera per il nostro paese. Il montaggio ci conduce parallelamente in tre direzioni e tre tempi scissi: il Sud Italia, Strasburgo, e l’altra sponda del Mediterraneo, dentro un incastro reso seducente da una fotografia pastosa e rivelatrice. Il dopo e il prima si ricongiungono nel racconto di un viaggio, scelta obbligata-sola via di fuga- sola alternativa ad una vita costantemente discriminata da un odio di razza culminante in violenze, soprusi, privazione del diritto fondamentale ad una esistenza libera e dignitosa. Per questo molti africani fuggono dalla Libia nel 2009, portando con sé il sogno del rinnovamento. Singole esistenze, ognuna con la propria storia, tutta caricata in quel barcone e in quel mare che separa la gioia prossima dalla sofferenza quotidiana.
Il racconto si fa più duro da ascoltare per me, per chi è in sala e per coloro che vedranno Mare Chiuso: il barcone viene identificato da un elicottero, arriva una nave militare, una piccola scialuppa preleva donne e bambini: parole rassicuranti, dolci e accoglienti, la speranza si fa ancora più viva e ardente. D’improvviso una telefonata muta ogni prospettiva: la comunicazione in Inglese interrotta, tutti i passeggeri privati dei documenti, numerati. Senza spiegazione. Il buio sopraggiunge, e nel crollo di forze stremate, l’illusione che il viaggio infinito porti a Milano… Gli occhi si aprono e la curva del sole rivela l’orrore: è un viaggio di ritorno, con consegna a una nave libica, dopo inutili e distruttivi tentativi di resistenza. I profughi picchiati, storditi con pistole elettriche dai nostri militari. La resa inevitabile, il lascito a braccia violente che in terra libica incarcerano, puniscono con randellate di catene, non danno da bere, costipano le donne. Era il tempo dello scellerato accordo Berlusconi-Gheddafi, il tempo della vergogna… Poi arriva la guerra ela Libia si sfalda in un’anarchia che permette evasioni dal carcere: qualcuno si rifugia nel campo profughi, altri ritentano l’approdo in Italia. Un eritreo riuscito a toccare finalmente terra ha portato il nostro paese davanti alla Corte di Strasburgo, per il respingimento e tutte le conseguenze subite a causa del rientro forzato in Libia. Da pochi mesi la battaglia è stata vinta, e l’Italia condannata dalla Corte al pagamento di 15.000 euro per ogni profugo-superstite. Multa non ancora pagata, naturalmente…
Segre e Liberti continueranno a dare al cinema la memoria di cui abbiamo bisogno. Per fortuna.
Maria Cera
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