Roma, 27 ott - Un peschereccio proveniente
dall'Egitto, con a bordo 57 cittadini extracomunitari, la cui
nazionalita' e' in corso di accertamento, e' stato fermato
alle ore 20.55 di ieri, al limite delle acque territoriali
Italiane, al largo delle coste Siracusane, da unita' navali
della Guardia di Finanza operanti in Sicilia. E' il bilancio
dell'Operazione al contrasto del fenomeno dell'immigrazione
clandestina denominata ''HARRAGAS'', che ha visto coinvolti,
sotto le indicazioni del Comando Operativo Aeronavale di
Pomezia (Pratica di Mare), un velivolo ATR 42, in forza al
Gruppo Esplorazione Aeromarittima alla stessa sede, nonche'
un pattugliatore veloce ed un Guardacoste Veloce del Gruppo
Aeronavale di Messina, Comando al quale e' stata affidata la
direzione delle operazioni.
Questa volta eravamo stati prima in prefettura, con l’on.
Alessandra Siragusa, per verificare che le procedure irregolari di
convalida del trattenimento, segnalate nelle precedenti visite a maggio
ed a giugno fossero cessate, come alcuni avvocati ci avevano detto. Ed
in effetti adesso sembra che le convalide delle proroghe dei
trattenimenti si facciano alla presenza delle persone interessate e non
siano più quelle proroghe “cartacee” sanzionate anche dalla Corte di
Cassazione con la sentenza n. 4544 del 2010, senza la presenza
dell’immigrato e senza la possibilità di esercitare un effettivo diritto
di difesa.
Intanto a Trapani è cambiato il dirigente dell’ufficio
immigrazione, è in corso una indagine della magistratura sulle violenze
commesse dalla polizia durante uno dei tanti tentativi di fuga, un caso
le cui immagini sono finite in diversi siti internet e che non si poteva
più ignorare, e sembra che i giudici di pace si rechino all’interno del
centro, senza limitarsi a svolgere le convalide dei trattenimenti in
tribunale senza la presenza dell’immigrato.
Questo tuttavia non ha impedito di trovare all’interno del CIE cinque
persone di nazionalità tunisina che asserivano di non avere mai visto un
giudice di pace ed anzi lamentavano che altri arrivati a Milo alla fine
di luglio erano stati rimessi in libertà per la mancata convalida nei
termini di legge ( 48 ore per la comunicazione al giudice e altre 48 ore
per la convalida), termini sanciti addirittura dall’art. 13 della
Costituzione, ma ignorati da sempre nei CIE italiani. Si dovrà
verificare adesso la loro posizione, ma intanto è certo che la maggior
parte delle persone sbarcate quest’anno e poi respinte in base all’art.
10 comma 1 ( respingimento immediato) del T.U. sull’immigrazione, magari
dopo giorni dall’ingresso nel territorio e di detenzione amministrativa
informale in centri di accoglienza a porte chiuse, con la complicità
delle autorità consolari dei paesi di origine, non hanno visto uno
straccio di provvedimento né hanno potuto fare valere una richiesta di
asilo o i loro diritti di difesa. Un escamotage inventato da qualche
esperto del ministero dell’interno per evitare l’applicazione della
Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, che sembrerebbe escludere dal suo
campo di applicazione i respingimenti immediati. La direttiva non
precisa se sono esclusi solo i respingimenti immediati in frontiera, ed a
livello europeo forse era fin troppo difficile cogliere la peculiarità
del respingimento differito disposto dal questore, che può essere
eseguito anche mesi dopo l’ingresso irregolare nel territorio dello
stato, dopo mesi di trattenimento amministrativo nei CIE, esattamente
come nel caso di una comune espulsione amministrativa disposta dal
prefetto. Un istituto quello del respingimento differito ex art. 10
comma 2 del testo unico sull’immigrazione, che consente gli spazi più
ampi alla discrezionalità amministrativa anche perché la norma che lo
contiene non disciplina neppure i mezzi di ricorso, ed a lungo sia i
giudici di pace che i tribunali amministrativi hanno negato la loro
competenza, al punto che si è negato agli immigrati qualunque diritto di
difesa. Dopo che alcuni giudici di pace hanno cominciato ad annullare
provvedimenti di respingimento differito, come lo scorso anno ad
Agrigento, ecco il ricorso ai respingimenti immediati ex art. 10 comma 1
del T.U. 286 del 1998, senza alcun provvedimento del questore, come una
mera prassi di polizia, ma con il trattenimento in strutture informali e
non nei CIE, senza alcuna convalida del magistrato, peggio senza che
sia neppure comunicato il trattenimento ad un magistrato. In questi casi
si tratta di persone entrate e trattenute per giorni in luoghi diversi
da CIE sotto stretta sorveglianza di polizia, come capannoni nella zona
portuale soggetta a controllo militare, senza uno straccio di
provvedimento che possa essere almeno impugnato, per essere poi
accompagnate in aeroporto e dopo l’identificazione del console del paese
di ( presunta) provenienza, imbarcate sull’aereo e rispedite in patria.
Una detenzione “in incommunicado” vietata dalla legge e dal
Regolamento Frontiere Schengen del 2006, che impone formalità e garanzie
precise per i respingimenti in frontiera, che però è frutto degli
accordi negoziati da Maroni a Tunisi lo scorso anno, il 5 aprile, quando
si convenne di fare partire dall’Italia con cadenza settimanale due
voli di rimpatrio diretto verso la Tunisia, senza attendere il
riconoscimento individuale delle persone, ma solo sulla base
dell’attestazione di nazionalità da parte di un console, magari nello
stesso aeroporto di Palermo nel quale era già pronto l’aereo di ritorno
con i motori accesi. Solo che siccome la sommarietà non esclude gli
errori, ecco l’altra novità di ieri, di solito dai centri di prima
accoglienza/detenzione all’aeroporto di Punta Raisi di Palermo viene
portato un numero superiore di persone destinate al rimpatrio, e quelli
che il console non riconosce, o non vuole riconoscere, quelli allora
vengono portati nel Cie di Milo o trasferiti in altri CIE. E la roulette
russa si può ripetere all’infinito. Un cittadino marocchino rinchiuso
ieri nel CIE di Milo ha raccontato di essere stato portato sei volte
davanti ad un console senza essere mai riconosciuto e quindi
rimpatriato.
Evidente, già a partire da queste prassi di polizia ,e dallo
schieramento di un cordone da ordine pubblico, lo stato di tensione che
si respira nel centro. A differenza di giugno le sbarre dei portoni di
ferro sono affumicate dal fuoco, e alcuni immigrati mostrano segni di
pestaggi in fase di riassorbimento, forse la fase più calda delle fughe
che si colloca tra luglio ed agosto, ma ancora in questi giorni le
contestazioni sono violente e per la prima volta la nostra visita
all’interno delle gabbie si è svolta, contro la nostra volontà, sotto
scorta di un gruppo di poliziotti schierati tra noi e la porta di
ingresso della gabbia con scudi, manganelli e visiera. Sembra che le
fughe siano state tantissime, alcune sono riuscite e sono state fughe di
massa, in altri casi quasi tutti gli immigrati sono stati ripresi.
Decisivo in questo caso l’intervento dei pattuglioni antisommossa di
stanza a Trapani, alloggiati in albergo e chiamati ad intervenire quando
la tensione sale o si verificano fughe. Ieri nel gabbiotto di guardia
all’ingresso si vedevano ammucchiati decine di zaini degli agenti di
polizia, come se fossero arrivati in massa poco prima della nostra
visita. Forse si temeva una sommossa o l’ennesimo tentativo di fuga.
Certo l’esasperazione era tanta, anche perché molti immigrati non
sapevano assolutamente quale sarebbe stato il loro destino ed erano
costretti ad attendere il passare dei giorni senza avere assolutamente
nulla da fare.
In queste condizioni le informazioni che abbiamo potuto assumere sui
casi individuali sono state lacunose, all’inizio nessuno voleva parlare
con noi, evidentemente avevano ricevuto tante altre visite di persone
che volevano solo sapere qualcosa senza offrire alcuna possibilità di
difesa. Poi, una volta rotto il muro della diffidenza, siamo stati
circondati da numerosi immigrati che volevano raccontare la propria
storia, raccontare -alternando protesta a rassegnazione- quello che
vivevano ogni giorno, in una struttura che è ancora più disumana del
vecchio Vulpitta, il vecchio CPT di Trapani, ubicato in un ospizio
riadattato, ma al centro della città. Sembra che siano ancora in corso
gli studi preliminari per l’ennesima ristrutturazione, in vista di una
sua riapertura. Malgrado i milioni di euro spesi negli anni passati, per
costruire il nuovo centro di Milo e per le continue ristrutturazioni
del Vulpitta, ancora fiumi d i denaro per ristrutturare il vecchio
centro che nel dicembre del 1999 era stato teatro della più grave
tragedia mai verificatisi in un centro di detenzione italiano, con la
morte di sei migranti, a seguito di un rogo appiccato dopo un tentativo
di fuga, quando ben dodici persone erano state rinchiuse per punizione
in una cella di pochi metri quadri e non si erano rinvenuti in tempo
chiavi ed estintori.
A Milo oggi molte cose sono cambiate rispetto ad allora, la struttura è
nuova, ma tutto è isolamento e annientamento della personalità.
Cemento, materassi per terra, pochi tavoli, quelli che abbiamo visto
nuovi, evidentemente portati prima della visita, perché ci hanno detto
in prefettura che gli immigrati li rompono e li utilizzano contro gli
agenti nei tentativi di fuga. E poi solo muri e sbarre, non una sola
occasione per trascorrere il tempo, solo pratiche di controllo, appelli
continui e condizioni disumane di isolamento di persone colpevoli
soltanto di non avere il documento di soggiorno o di ingresso in regola.
Come dicevano molti, peggio che un carcere, si, perché a seguito della
prassi dei respingimenti sommari dei tunisini ( e degli egiziani) appena
sbarcati, oltre che per la riduzione oggettiva delle partenze dal nord
africa ( meno di un decimo rispetto allo scorso anno), la popolazione
del CIE di Milo ormai è quasi esclusivamente composta da ex detenuti, o
da richiedenti asilo che hanno potuto formalizzare la loro domanda solo
dopo avere ricevuto un provvedimento di respingimento ed espulsione.
Come imposto dal decreto legislativo 159 del 2008 di Maroni, un
provvedimento che estendeva i casi di detenzione amministrativa dei
richiedenti asilo, dopo il decreto legislativo 25 del 2008 che invece
attuava la direttiva comunitaria sulle procedure di asilo in modo molto
più aperto. Anche se ancora ieri qualcuno riferiva di avere subito
torture nei commissariati di polizia in Tunisia, o in altri paesi
ritenuti a torto sicuri molte di queste domande saranno certamente
rigettate e non si vede come possano essere fatti i ricorsi, a fronte
dei costi ormai impossibili per un migrante, della chiusura dei consigli
dell’ordine sul gratuito patrocinio e dei tempi per avvalersi di un
avvocato di fiducia.
E per quelli che manifestano l’intenzione di chiedere asilo, anche due
mesi per la formalizzazione della domanda nel modello C 3 e per l’avvio
della procedura presso la Commissione territoriale. Due mesi di
detenzione del tutto privi di giustificazione, basati solo sul
pregiudizio che tutti i richiedenti asilo sono soltanto immigrati che
cercano di evitare il respingimento o l’espulsione. Una circostanza che
si può anche verificare, ma che andrebbe accertata dalla Commissione
territoriale, e che in nessun caso può costituire una ragione per
impedire o ritardare l’accesso alla procedura quando questo significa
settimane di trattenimento ingiustificato.
Molti i casi di immigrati che segnalavano di non avere più notizie
del proprio avvocato d’ufficio. Malgrado il quadro idilliaco tracciato
dai responsabili del nuovo consorzio di associazioni, l’Oasi di
Siracusa, sui servizi di mediazione offerti a quelli che la direttrice
si ostinava a definire come “ospiti”, il livello di informazione legale a
disposizione di queste persone è assai modesto e le possibilità di fare
valere i loro diritti rimangono assai remote. Alcuni immigrati si
trovavano detenuti da oltr
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